mercoledì 26 settembre 2012

Il compagno Pablo


Lo confesso, mi sento profeta in patria. E gongolo. Lo so che non si dovrebbe mai - dico mai - gioire delle sventure altrui. Ma se servono ad aprire gli occhi e a prevenire danni futuri, allora è un'altra cosa.
Lo sgretolamento del Madre di Napoli (ma anche il commissariamento del Maxxi di Roma e lo stop del progettato Mac di Milano) conferma le mie più fosche previsioni e ci restituisce il polso della situazione in cui versa l'istituzione dell'arte contemporanea in Italia. Un polso debolissimo che, anche auscultandolo con strumenti sofisticati, non rilascia segnali. Non si sente volare una mosca, al massimo si avverte una cosca di sottofondo.

Eppure all'apertura del Madre (Museo d'Arte contemporanea Donna Regina) tutti avevano strillato al miracolo di San Germano (Celant), finalmente c'era la cattedrale nel deserto (del Sud). Ma di solito questo tipo di "cattedrale nel deserto" in breve si converte nel "deserto nella cattedrale". Passata la sbronza del prosecchino inaugurale il pubblico diserta. Se non fosse per le riviste di settore compiacenti & interessate questi luoghi sarebbero dei miseri buchi nell'acqua, delle trivellazioni a vuoto, dei tronfi tonfi. Splash Art.

E' una prerogativa dei nostri curatori, avere una visione unilaterale, parziale, caparbiamente faziosa e fregarsene delle conseguenze. Badano solo alle apparenze del "sistema dell'arte" che li sorregge per istinto di conservazione, si preoccupano esclusivamente delle convergenze coi loro artisti e galleristi di riferimento, mirano dritti al riconoscimento degli amici degli amici. Il loro è un uso personale & ombelicale di spazio pubblico. E' il più palese conflitto d'interessi del nostro paese. Da codice.
Ma guai a criticarli, si passa subito per dei retrogradi ignoranti. Guai a chiedere ragioni delle scelte operate, sono cose da menti obnubilate dal pregiudizio. Loro sono i curatori, i guaritori, gli sciamani che decidono cos'è arte e cosa non lo è. Si sono dati la facoltà di decidere.

Il principale dei valori non negoziabili da questi "signori dell'arte" è proprio l'opacità. La volontà di suonarsela come gli pare e piace alla faccia di chi non è d'accordo. Tanto alla base c'è il concetto che la gente non capisce niente di arte contemporanea. Concetto a cui si adeguano comuni, regioni, nazioni intere che affidano loro edifici di extra lusso a spese dei contribuenti. E se un artista (si suppone in qualche modo competente) protesta, lo si taccia di essere prevenuto in quanto "escluso, invidioso, emarginato". Emarginato da chi? Ovviamente da loro curatori controllori che fanno il bello & il cattivo tempo e che tengono a bada i disturbatori.

Non avrai altra arte se non quella che ti dico io! L'undecimo comandamento. Un avvertimento. Chi li tocca muore. E' fuori, sciò! Via! scacciato con ignominia dal consesso delle persone raffinate & aggiornate. Il villaggio globale dell'arte è come quelle cittadine del Far West dove un pugno di mandriani prepotenti detta la legge del più forte a tutti gli altri pecoroni. Il pubblico è considerato alla stregua del gregge che deve solo seguire, ubbidire e belare di piacere.

Basti pensare che durante la grande mostra antologica dedicata a Damien Hirst (Tate-Londra) il critico Julian Spalding, che aveva osato criticare (dovrebbe essere la funzione vitale di un critico quella di criticare), è stato rudemente allontanato come indesiderato. Ma qui siamo alla dittatura sotto dettatura, alla recensione con obbligo d'incensazione, alla cultura pura & dura che non ammette repliche ma si chiude a riccio, a feticcio.

Pablo Echaurren

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